Balcani. La fatica dell’allargamento

Il lento cammino del processo di integrazione

LUISA CHIODI

 

A seguito delle guerre degli anni ‘90 l’Unione Europea aveva proposto ai paesi dei Balcani un percorso di integrazione pensato come progetto di pacificazione regionale, nel solco della sua esperienza storica. L’auspicio che la prospettiva europea servisse a superare l’eredità dei sanguinosi conflitti che avevano sconvolto la regione, si è però scontrata con la miopia e il nazionalismo tanto delle leadership locali e che di quelle dei paesi membri dell’UE.

Col passare degli anni e senza passi avanti significativi dopo l’ingresso della Croazia nel 2013, la regione, denominata ormai sempre più spesso con l’appellativo di “Balcani occidentali” ha quindi assunto l’aspetto di un’enclave, instabile e vulnerabile ad interessi di altre potenze.

La crisi migratoria del 2015-16 ha mostrato chiaramente la sua collocazione nel nuovo assetto e nei nuovi equilibri europei, cristallizzando la percezione dei Balcani come periferia esterna all’Unione, utile eventualmente nella gestione della cosiddetta «rotta balcanica». Lo stallo del processo di integrazione europea della regione è stato riassunto nello slogan «fatica dell’allargamento», per indicare il graduale arretramento nei confronti della promessa di adesione.

A modificare il contesto internazionale è arrivata la guerra su larga scala della Russia all’Ucraina a partire dalla primavera del 2022, che ha spinto l’UE ad accogliere la domanda di integrazione dei paesi del partenariato orientale, fino a quel momento sempre categoricamente rigettata. I Balcani hanno quindi goduto di riflesso del rilancio del processo di allargamento provocato dall’aggressione russa. A questo punto, però, la promessa di integrazione non aveva più lo scopo della pacificazione continentale – come nell’esperienza della ricostruzione del continente dopo la fine della Seconda guerra mondiale – ma è diventata un processo geopolitico guidato prevalentemente da ragioni di sicurezza.

Se Ucraina e Moldavia in poco tempo sono riusciti ad ottenere l’apertura dei negoziati e la Georgia da poco la candidatura a paese membro, per i Balcani la volontà politica interna ed esterna di far progredire l’integrazione continua però ad essere debole. In alcuni casi, come per la Macedonia del Nord, oltre all’esasperante lentezza con cui si è arrivati ad aprire i negoziati di adesione – processo durato quindici anni e non pochi mesi come per l’Ucraina – si resta ancora oggi bloccati da dispute irrisolte con i paesi limitrofi membri dell’UE.

Di fronte alle difficoltà – e dato il prevedibile difficile processo di riforma dei trattati necessario per fare fronte ad un nuovo allargamento –  oggi, si è fatta largo un nuovo approccio alla regione, ovvero quella della graduale integrazione economica nel mercato unico europeo come fase preliminare all’integrazione vera e propria.

A sostegno di questo nuovo approccio, l’UE ha aggiunto ai fondi già stanziati per la regione altri sei miliardi di euro (quattro dei quali di prestiti agevolati) col  cosiddetto «Piano per la crescita», delineato sul modello del Recovery Plan (o PNRR) dei paesi membri. Le risorse sono condizionate al rispetto di alcuni criteri volti a favorire la stabilizzazione regionale. In questo contesto l’Italia, che da sempre sostiene il processo di integrazione europea dei Balcani, ha confermato il suo impegno verso questa strategia, fondamentale per evitare che il divario economico tra UE e Balcani si aggravi ulteriormente.

Anche gli studi più ottimistici infatti evidenziano che serviranno non meno di venti anni, se non addirittura quaranta anni, per ottenere una qualche convergenza economica tra i paesi della regione e l’UE.

Le condizioni generali della regione per altro sono poco favorevoli, con un mercato del lavoro condizionato dalla forte crisi demografica, aggravata dall’emigrazione di massa della popolazione attiva, e in presenza di manodopera i cui costi non sono particolarmente competitivi.

La classe politica locale è senza dubbio il principale ostacolo al consolidamento democratico dei paesi candidati, passaggi fondamentale per completare il processo di integrazione. In più di un paese, a partire dalla Serbia, la deriva illiberale è la costante da anni, nonostante la vitalità della società civile e la frequenza dei movimenti di protesta. Tra gli scenari più preoccupanti c’è sicuramente quello della Bosnia Erzegovina costantemente minacciata di dissoluzione dal leader nazionalista serbo-bosniaco Milorad Dodik. Negli anni, alcune figure di spicco come il leader albanese Edi Rama si sono distinte per la capacità di rinnovare l’immagine del paese ma la sostanza delle riforme istituzionali ad oggi è frutto della spinta della Commissione Europea, più che di un impegno coerente delle élite locali verso l’integrazione europea.

Alle difficoltà interne ai paesi della regione, alle prese con la trasformazione postcomunista e postconflitto, si sono aggiunti gli ostacoli posti da alcuni paesi membri dell’UE. Il caso più sfortunato è quello già citato della Macedonia del Nord bloccata prima per anni dalla Grecia, che ne chiedeva il cambio del nome, e negli ultimi anni in balia della Bulgaria che chiede l’introduzione nella costituzione macedone della menzione esplicita della propria esigua minoranza.

Oltre ai conflitti bilaterali, nel corso degli anni si sono verificati altri incidenti di percorso che hanno visto paesi membri  ostacolare il processo di allargamento ai Balcani per ragioni di politica interna. Per un paio di anni, tra il 2019 ed il 2020 era stata la Francia di Macron a bloccare l’allargamento in nome del rischio migratorio. Ma a tenere in scacco questo o quel paese possono a turno essere tutti gli stati membri in virtù del diritto di veto in materia di politica estera, ove i trattati comunitari prevedono l’unanimità. Ultimamente, ad esempio, l’Ungheria di Viktor Orban ha costretto al posticipo dell’adozione del Piano per la crescita, ricattando gli altri paesi membri per ottenere i fondi europei che le erano stati bloccati per via delle sue violazioni allo stato di diritto.

L’Ungheria, tra l’altro, nella scorsa Commissione aveva ottenuto il portafoglio dell’Allargamento e negli anni il Commissario Olivér Varhely ha ripetutamente preso posizioni in contrasto con le politiche e i valori comuni aggravando la crisi del processo di integrazione dei Balcani. L’esempio più eclatante di questo triste scenario è stato il sostegno esplicito tanto di Orban che del suo commissario a Dodik, leader secessionista della Repubblica Serba di Bosnia Erzegovina.

L’Italia dal canto suo ha mantenuto nel tempo una posizione esplicita a sostegno dell’allargamento, pur mancando di forza politica sufficiente per fare la differenza. Consapevole dei propri limiti, fino ad oggi il nostro paese ha giustamente scelto di muoversi di concerto con i partner europei. Analogamente, il governo in carica ha sostenuto la nuova strategia di graduale inclusione nel mercato unico. Il vero nodo che dovrà sciogliere riguarda però la necessità di riformare i trattati, passo indispensabile per fare posto a nove nuovi paesi evitando il rischio del completo stallo istituzionale dell’UE. In una logica sovranista, però, difficilmente l’Italia sarà disposta a rinunciare al principio di unanimità a favore del metodo comunitario, necessario per far funzionare uno spazio politico futuro con oltre 500 milioni di abitanti e 36 paesi membri.

Per ora i Balcani restano oggetto di interesse del governo italiano soprattutto rispetto alle tematiche migratorie, sia in relazione alla cosiddetta «rotta balcanica», sia per il tentativo di esternalizzazione della gestione delle domande di asilo verso l’Albania con l’accordo Meloni-Rama.

Ci sono però varie ragioni per continuare a vedere nei Balcani un elemento fondamentale per la sicurezza dell’UE, a partire dalla collocazione geografica di enclave dell’Unione, come evidente proprio nel caso della rotta balcanica. I migranti fanno infatti ingresso nello spazio UE approdando in Grecia per poi trovarsi bloccati nei Balcani non-UE, in Serbia e Bosnia Erzegovina in particolare, prima di riuscire ad attraversare di nuovo i confini dell’UE entrando in Croazia per poi raggiungere a tappe l’Europa del Nord.

Nei Balcani si gioca anche la competizione con le grandi potenze rivali a livello globale. In primis la Russia che  si temeva aprisse qui un secondo fronte, dopo l’invasione su larga scala dell’Ucraina. Le difficoltà incontrate dal Cremlino sul campo di battaglia hanno impedito il sostegno militare aperto agli alleati nella regione, ma Mosca ha continuato a sostenere i secessionisti in Bosnia Erzegovina e a spalleggiare la Serbia nel conflitto con il Kosovo. L’aspetto più paradossale della relazione geopolitica tra Russia e Serbia, tuttavia, è stato il massiccio afflusso di russi fuoriusciti dal paese dopo il 2022 a Belgrado, dando dimostrazione concreta all’opinione pubblica locale dei limiti della posizione filorussa dei loro governi.

A differenza di Mosca, l’influenza cinese nell’area è economica e infrastrutturale più che politica, militare ed identitaria. Con la costruzione dell’asse ferroviario dal porto del Pireo a Budapest e con i prestiti per la costituzione di infrastrutture, la Cina si mostra interessata soprattutto alla penetrazione economica nella regione.

Da ultimo, nei Balcani hanno un ruolo crescente tanto la Turchia che i paesi arabi, la cui influenza culturale sulle minoranze musulmane si manifesta in ambiti diversi dall’istruzione alla pratiche religiose.

Non va trascurato il fatto che sono tre su sei i paesi dei Balcani occidentali oggi membri della Nato: i due paesi più colpiti dai conflitti degli anni ‘90, la Bosnia Erzegovina (BiH) ed il Kosovo dal canto loro vedono la presenza di due significative missioni militari occidentali, la piccola EUfor in BiH e la massiccia Kfor in Kosovo. La Serbia invece rivendica la propria  equidistanza tra Mosca e Washington ma, negli ultimi tempi, ancora una volta paradossalmente, si è distinta per la fornitura di armi tanto ad Israele quanto all’Ucraina, in barba alla sua relazione privilegiata con la Russia.

I paesi dei Balcani sono piccoli stati, piuttosto instabili e il cui comportamento in politica estera è segnato da una forte componente di opportunismo. Non potendo dettare l’agenda politica in qualche caso si accodano al più forte, in altre circostanze si muovono tatticamente tra più interlocutori sperando di massimizzare il vantaggio. Qualora entrassero nello spazio UE, come gli altri paesi membri di piccole dimensioni anche i Balcani amplificherebbero la propria capacità di azione in politica internazionale ma la loro prospettiva di integrazione è ancora lontana.

Le risorse fresche messe a disposizione dall’UE con il Piano per la crescita, sono condizionate alla buona volontà di risolvere i conflitti pendenti, in primis quello tra Serbia e Kosovo. Alcuni analisti dubitano però che i vantaggi prodotti dall’integrazione graduale nel mercato unico e l’incentivo finanziario messo sul piatto dal Piano saranno sufficienti a spingere le élites locali ad impegnarsi seriamente in questa direzione. Tanto più che, come evidenzia l’analista bosniaco del centro studi European Stability Initiatives Adnan Ćerimagić, il contesto internazionale è gravemente peggiorato negli ultimi anni, riportando in auge le ideologie degli anni ‘90, che nei Balcani non sono mai davvero tramontate.

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