Come l’invasione dell’Ucraina sta accelerando i progetti di difesa comune. Analisi di Arturo Gorup de Besanez

4 Aprile 2022.

A distanza di un mese dall’inizio dell’invasione russa dell’Ucraina non possono più esserci dubbi sul fatto che il 24 febbraio sia iniziata una nuova epoca della storia europea.

Per quanto gli studiosi di relazioni internazionali possano storcere il naso sentendo parlare di un «ritorno» della politica di potenza nel vecchio continente, è tuttavia certo che gli avvenimenti dell’ultimo mese abbiano messo i paesi europei in una posizione alla quale non erano abituati almeno dai tempi della Guerra fredda: quella di dover prendere importanti e urgenti decisioni strategiche di fronte a un’arena internazionale diventata improvvisamente molto più pericolosa.

È appunto nelle scelte degli Stati membri e nelle dichiarazioni delle istituzioni europee che si intravede finalmente la possibilità di un’accelerazione nei progetti di integrazione europea nel campo della difesa.

 

Nei giorni successivi all’invasione, l’Unione Europea ha superato le aspettative della maggior parte degli osservatori, annunciando pacchetti di sanzioni di vasta portata contro la Russia con un’unanimità vista molto raramente in passato. Già il 27 febbraio Ursula von der Leyen, attuale presidente della Commissione europea, e Josep Borrell, l’Alto rappresentante per gli affari esteri e la sicurezza comune, annunciarono che, per la prima volta nella sua storia, l’Unione europea avrebbe finanziato l’acquisto e l’invio di armi a un paese sotto attacco. La somma totale di 500 milioni di euro (di cui 50 milioni di equipaggiamento non-letale), poi raddoppiata dal Consiglio Europeo del 23 marzo, verrà amministrata dalla European Peace Facility, nuovo strumento della Politica estera e di sicurezza comune (Pes) dal nome quantomeno eufemistico, creato appena un anno fa. Tale scelta è stata giustamente definita dagli osservatori internazionali, oltre che dalla stessa von der Leyen, come un «momento spartiacque» per l’Unione. A rincarare la dose ha contribuito l’Alto rappresentante Borrell nel suo discorso alla plenaria del Parlamento europeo del 1° marzo. Secondo Borrell, che sin dal suo insediamento a Bruxelles esortava l’Unione europea a re-imparare il «linguaggio del potere» per fare fronte alle sfide geopolitiche che la circondano, la guerra in Ucraina deve segnare la nascita dell’«Europa geopolitica».

 

Chi osserva con regolarità le dinamiche interne all’Unione Europea sa tuttavia che l’ambizione dei dirigenti a Bruxelles corre molto spesso il pericolo di essere frenata bruscamente dalla volontà politica (o dalla sua mancanza) degli Stati membri. Per questo motivo, le dichiarazioni del Consiglio europeo, che si è riunito già in tre occasioni dal 24 febbraio, sono probabilmente ancora più importanti. Facendo eco alla formulazione di Borrell, la dichiarazione congiunta del Consiglio in seguito al summit di Versailles del 10-11 marzo sottolinea la necessità di costruire la «sovranità europea», oltre che di assumersi «maggiori responsabilità per la nostra sicurezza». Non meno degno di nota il passaggio della dichiarazione in cui si richiede alla Commissione di coordinare con l’Agenzia europea per la difesa un’«analisi delle carenze di investimenti in materia di difesa» da presentare a maggio. Si tratta di un’autentica mobilitazione dell’industria europea, invitata ad operare nel settore della difesa per la prima volta su base continentale anziché nazionale (il protezionismo in materia di produzione di materiale bellico è del resto ben fissato nell’articolo 346 del Trattato di Lisbona).

 

A rafforzare la credibilità di un impegno a creare un’autentica integrazione europea della difesa contribuiscono le azioni degli stati membri, che dal giorno dell’invasione si sono mossi quasi all’unisono. Aumenti delle spese militari sono stati annunciati dalla maggior parte dei paesi europei, fra cui anche l’Italia, in genere mirati a raggiungere quel 2% del Pil previsto dagli accordi interni alla Nato.

Il maggiore scalpore è stato creato senza dubbio dalla Germania. Il 27 febbraio il Cancelliere Olaf Scholz ha annunciato un investimento da 100 miliardi di euro per la modernizzazione delle forze armate, segnando un forte punto di rottura con i suoi predecessori. Per oltre sette decenni, infatti, la triste eredità del ruolo avuto nella Seconda guerra mondiale ha reso tabù l’attivazione di un programma di riarmo di tali dimensioni, in un paese fino a poco tempo fa molto riluttante ad assumersi un ruolo militare al di fuori dei propri confini. Come ha notato Rosa Balfour, direttrice del think-tank Carnegie Europe, la decisione tedesca indica che tutti e tre i partiti della coalizione al governo hanno dovuto scendere a compromessi su quelli che erano i loro dogmi: i socialdemocratici riguardo alla ricerca di un rapporto distensivo verso la Russia (sulla falsariga dell’Ostpolitik di Willy Brandt), i verdi per quello che riguarda l’avversione alle spese militari, e i liberali sulla preoccupazione verso un aumento del debito pubblico.

 

Altre notizie interessanti arrivano dal Nord del continente. In Danimarca, oltre all’aumento delle spese militari fino al 2% del Pil, il Primo ministro Mette Frederiksen ha annunciato un referendum per abrogare l’opt-out del paese dalle strutture della Politica estera e di sicurezza comune. Dichiarando a una conferenza stampa del 6 marzo che «momenti storici richiedono decisioni storiche», ha invitato i cittadini a votare a favore della partecipazione danese nei progetti di difesa europei. I fatti dell’ultimo mese hanno infine risuscitato il dibattito in Svezia, paese storicamente neutrale, riguardo all’adesione alla Nato. In vista delle elezioni politiche che si svolgeranno quest’anno a settembre, il leader del Partito moderato Ulf Kristersson (attualmente all’opposizione) ha promesso che in caso di una sua vittoria Stoccolma richiederà ufficialmente di entrare nell’Alleanza atlantica.

 

In tale contesto è avvenuta l’approvazione da parte del Consiglio europeo della «Bussola strategica», documento preparato dall’ufficio di Borrell alla fine dello scorso anno che stabilisce le priorità e i primi passi per una difesa comune europea.

La novità più importante presentata nel documento riguarda la creazione di una forza di reazione rapida di 5.000 soldati da poter impiegare in situazioni di crisi anche come prima forza di intervento. Un’enfasi particolare viene anche messa sulla cooperazione marittima, e sull’importanza data alla ricerca e allo sviluppo di nuove tecnologie in campo militare.

La Bussola affronta inoltre il tema del rapporto con la Nato, che viene menzionata ben 24 volte nel documento. Come si legge nell’introduzione, un’Unione europea più autonoma in materia di sicurezza è vista come «complementare» dell’Alleanza atlantica, che resta il partner strategico di gran lunga più importante per gli Stati membri dell’Unione. A due anni dalla famosa dichiarazione del Presidente Macron sulla «morte cerebrale» della Nato, ciò non era del tutto scontato. È da notare tuttavia che tale formulazione è ben più ambigua di quanto contenuto nel recente trattato di cooperazione italo-francese (il «Trattato del Quirinale»), in cui i piani per una difesa comune europea devono servire per rafforzare il «pilastro europeo della Nato», espressione che strizza l’occhio alla necessità dichiarata degli Stati Uniti di iniziare a spostare la propria attenzione verso il teatro del Pacifico.

 

Se Jean Monnet aveva ragione quando scriveva che «l’Europa si farà nelle crisi», la catastrofe dell’Ucraina potrebbe aver creato il contesto ideale per una forte accelerata nella creazione di un’autentica integrazione militare europea. È tuttavia necessario ricordare che rimangono molte variabili che potrebbero cambiare rapidamente la situazione, fra cui l’apparizione di crepe nell’unità europea sulle sanzioni (in particolare per quello che riguarda gli approvvigionamenti energetici) o rovesci politici nei prossimi appuntamenti elettorali in Francia e Italia. La Bussola strategica, inoltre, non supera interamente i limiti già presenti in tutte le carte programmatiche sulla sicurezza comune europea stilati dalla «dottrina Solana» del 2003 fino ad oggi, riguardanti le difficoltà di implementazione dei buoni propositi fissati sulla carta. Infine, pur senza sottovalutare l’importanza simbolica della forza di reazione rapida prevista dalla Bussola strategica, tale progetto non appare molto diverso da quello degli EU Battlegroups, unità militari multinazionali composte da 1.500 effettivi operative dal 2007 e mai adoperate.

 

Per il momento, è da notare con soddisfazione che anziché creare divisioni, come è presumibile sperasse il Presidente russo Vladimir Putin, l’invasione dell’Ucraina ha invece consolidato le alleanze europee e nord-atlantiche. I progetti dichiarati degli Stati membri e le azioni intraprese finora dalle istituzioni europee rappresentano un avvio promettente sulla strada che porterebbe l’Unione europea a diventare un autentico attore geopolitico.

Il pericolo rappresentato dallo scoppio della prima guerra in Europa dal tempo dei conflitti nell’ex-Jugoslavia impone alle leadership europee di non sprecare il momento favorevole, in cui dalla crisi possa nascere un’Europa più unita e quindi più forte.

 

di Arturo Gorup de Besanez

 

 

 

 

Scopri di più da Fondaco Europa

Abbonati ora per continuare a leggere e avere accesso all'archivio completo.

Continua a leggere