Perché temiamo il mare che è stato la culla della nostra civiltà
GIANPAOLO SCARANTE
Lo storico Fernand Braudel, che nel 1949 ha scritto quello che ancora oggi credo sia il miglior saggio sul Mediterraneo, lo definisce un continente liquido, un luogo dove si sono sviluppate e intrecciate straordinarie relazioni, incontri, fantastiche storie e sconvolgimenti di ogni tipo in un arco di trenta secoli di storia.
Noi oggi parliamo di quanto avvenuto in tempi recenti, nell’ultimo tratto di questa storia lunghissima e straordinaria, quando in maniera inaspettata ci siamo resi conto che lo spazio che chiamiamo Mediterraneo è tornato ad essere determinante per la nostra vita, sotto il profilo politico ed economico come è stato spesso in passato, ma anche per le impegnative e rischiose sfide che ci presenta per la nostra sicurezza.
Che il Mediterraneo sia vitale per l’Italia e per l’Europa lo abbiamo compreso attraverso molti segnali. Poche settimane fa, ad esempio, la crisi del Mar Rosso indotta dagli attacchi alle navi mercantili degli Houthy, ci ha posto davanti al fatto che la stragrande maggioranza delle merci che produciamo e che consumiamo vengono trasferite via mare e che i mari hanno degli snodi di particolare importanza. E che questi snodi agiscono come piccole o grandi faglie sismiche, dove i conflitti ciclicamente tendono ad esplodere.
Ecco, il Mediterraneo ha almeno tre di questi snodi strategici: Suez Gibilterra e gli Stretti; solo questo basterebbe a collocarlo come un tassello essenziale della nostra politica di sicurezza.
Ma nel ritrovare una centralità mediterranea, oggi vi è qualcosa di diverso rispetto a epoche passate, che riguarda un po’ tutti noi. Se in tempi lontani la sua centralità era una garanzia positiva per i popoli che lo circondano, oggi la ritrovata centralità riveste per noi un carattere problematico, se non decisamente negativo.
Non è più un luogo di incontri e opportunità; il continente liquido di Braudel per noi oggi è uno spazio irto di insidie e di pericoli. Lo percepiamo come una minaccia alla nostra sicurezza, o meglio il luogo da cui provengono una somma di minacce di vario genere e che va quindi tenuto lontano. Il tempo di volo fra Roma e Venezia e fra Roma e Tunisi è praticamente lo stesso, ma noi vogliamo percepire la Tunisia, il Nord Africa come lontani, perché ne abbiamo paura.
Lo sguardo sul mondo degli europei mediterranei
Perché noi oggi temiamo un mare che è stato la culla della nostra civiltà e che ancora oggi è cosi presente nella nostra cultura, nel modo in cui noi europei mediterranei guardiamo al mondo?
- In primo luogo perché temiamo l’instabilità della sua riva Sud. Il contagio che può provenire da paesi come la Libia, ma anche la Tunisia che hanno nei fatti cronicizzato gravi forme di instabilità politica, economica e sociale.
Dalla fine del 2010 e nel 2011 si sono susseguite crisi che hanno sgretolato sistemi politici e sociali fragilissimi. Tunisia, Libia, Egitto e via via, sino alla Siria e al suo tremendo conflitto che di fatto è tuttora irrisolto. Uno storico equilibrio geopolitico che aveva retto dalla fine della prima guerra mondiale in poi, è venuto meno. Il suo crollo senza nulla che lo sostituisse ha di fatto reso permanente un’instabilità politica generale resa ancora più esplosiva dalle diseguaglianze cresciute a dismisura nelle rispettive società civili.
La Tunisia ha aperto la strada e poi via via la Libia e altri paesi che hanno vissuto le cosiddette primavere arabe. La Tunisia è tuttora sull’orlo del precipizio, come tanti anni fa raffigurava una copertina dell’«Economist», ma non ci cade e speriamo non ci cada mai. La Libia si è spaccata in due, il governo di Tripoli e quello di Bengasi, lungo una frattura antichissima, che era la frattura fra la Libia che guardava a Occidente e quella che si riferiva all’Oriente, alla Grecia antica, alle cinque colonie greche che componevano la Pentapoli cirenaica sopravvissuta sino al VII secolo.
L’Egitto come in un tragico gioco dell’oca è ritornato a essere quello che era: una dittatura forse peggiore della precedente, dove l’esercito gioca un ruolo preponderante e dove come sappiamo bene i diritti umani sono calpesttti.
E l’area mediterranea, dobbiamo ricordarlo, è anche l’area dove si è sviluppata e dove purtroppo è ancora irrisolta la più grave crisi internazionale dei nostri tempi. Quel conflitto israelo-palestinese che oggi vede un nuovo tremendo capitolo nel conflitto fra Israele e Hamas sul terreno di Gaza.
E inoltre, come e non bastasse, l’Egeo è anche l’area dove esiste tuttora una controversia irrisolta di grande gravità, che è quella tra la Grecia e la Turchia per la definizione dei confini seguita alla Prima guerra mondiale e al trattato di Losanna del 1923, crisi resa oggi ancora più complessa dal tema dello sfruttamento delle relative risorse. Si tratta di una controversia oggi all’apparenza silente, ma che potrebbe ripresentarsi in maniera drammatica.
A questo quadro geopolitico d’insieme complesso e rischioso si aggiunge un’altra ragione di natura diversa: è quella della del cosiddetto problema migratorio. La riva Sud è il luogo da cui provengono i flussi migratori che tanto ci spaventano e che svolgono un ruolo non sempre positivo nelle politiche interne in molti paesi. Ci pongono di fronte a un problema, i flussi incontrollati di migranti, nei confronti del quale non sappiamo cosa fare. Non volendo comprendere appieno la natura di questo problema, confondiamo le sue conseguenze, cioè gli sbarchi di massa, con la sua vera causa, il differenziale di sviluppo fra aree del mondo in crescita incontrollata. La mancanza di vere risposte a questo dramma storico, alimenta le nostre paure.
- Ma vi è altro, su di un piano diverso, che ci preoccupa. Mi riferisco al fatto che in un contesto così drammaticamente instabile noi non vediamo né una grande potenza né un’istituzione multilaterale in grado di aiutare la composizione di questi conflitti.
Gli Stati Uniti, l’unica grande potenza oggi che potrebbe influire in senso stabilizzatore, non sono in grado di farlo perché attraversano un grave crisi interna e la loro egemonia mondiale è da tempo in declino. La crescita di altri attori internazionali, vedi la Cina, non pare in grado di agire come fattore di stabilizzazione dell’ordine politico internazionale.
E inoltre negli ultimi decenni l’intera comunità internazionale ha contribuito a dequalificare l’unico strumento multilaterale faticosamente realizzato dopo la seconda guerra mondiale come regolatore dell’ordine internazionale, le Nazioni Unite.
Il risultato è che oggi, le Nazioni Unite, che nascono per la soluzione delle controversie internazionali e per la prevenzione dei confitti, non giocano un ruolo significativo in nessuna delle crisi in ambito mediterraneo.
Il consiglio di sicurezza, che è l’organo esecutivo di questa istituzione, è di fatto bloccato, perché oltre a rappresentare la fotografia invecchiata dei vincitori della seconda guerra mondiale, non è stato oggetto di una riforma che lo aggiornasse e lo mettesse al passo con i tempi.
Ma del Mediterraneo si sono occupate poco e male anche altre istituzioni multilaterali.
L’Unione Europea, non ha riservato all’area mediterranea quell’attenzione e quell’impegno che sarebbe stato opportuno e necessario. Due sono state le iniziative mediterranee di un certo rilievo: il processo di Barcellona inaugurato nel 1995 e più recentemente l’Unione mediterranea voluta dalla Francia di Sarkozy nel 2008. Entrambe non hanno conseguito significativi risultati né sul piano dello sviluppo della collaborazione politica ed economica né su quello dell’integrazione delle società a livello mediterraneo.
Anche a livello della NATO, un contesto molto diverso, possiamo ricordare la timidezza e inadeguatezza dei tentativi di dialogo mediterraneo. La NATO ha sempre concentrato i suoi sforzi e la sua attenzione verso Oriente, perché il pericolo durante la guerra fredda proveniva da lì. Ma chiusasi la guerra fredda, vi è stato un tentativo di accompagnare alla direttrice Est-Ovest quella Nord-Sud: furono varate due iniziative quasi in contemporanea, la Partnership for peace e la Partnership mediterranea, una rivolta ai paesi dell’Est l’altra ai paesi del Sud. Fortemente squilibrate nei mezzi a disposizione, la prima ha funzionato la seconda no.Cito solo brevemente altre due iniziative politiche, rivolte entrambe alla cooperazione mediterranea. Quella conosciuta come i 5 + 5, cinque Paesi della riva Nord e cinque paesi europei di quella Sud, che non ha sostanzialmente prodotto risultati concreti. E successivamente nel 2008, l’UPM, l’Union pour la Mediterranee, anch’essa priva di significativi risultati. E infine, ricordo la creazione nel 1987 dell’UMA, Union du Magreb Arab, un tentativo di dialogo inframagrebino fra Tunisia, Algeria, Libia, Marocco e Mauritania, che cercava l’Europa quale riferimento e che non ha trovato di fatto un riscontro significativo da parte di Bruxelles.
Il senso perduto del Mediterraneo
Ma il nostro paese, l’Italia, come si colloca in questo quadro? Analisti e commentatori sono oggi impegnati nel raccontarci come l’Italia abbia perduto il senso del Mediterraneo e non vi è dubbio che sia così. È un lungo percorso storico quello che ha portato l’Italia di oggi a essere così poco mediterranea, una qualifica di cui quasi ci vergogniamo.
Un percorso che viene forse da lontano, dal modo in cui si è costituita la nostra unità nazionale, attorno a uno Stato, il Regno del Piemonte, che non era uno Stato mediterraneo e che non aveva ambizioni di politica mediterranea. Ben diverso sarebbe stata la nostra storia se – faccio un po’ di fantastoria – l’unità d’Italia si fosse realizzata attraverso il Regno delle due Sicilie, che aveva sì un’esposizione e una politica mediterranea anche di natura militare.
Ma non vi è solo questo. Negli anni dal dopoguerra ad oggi, ha giocato un ruolo anche una certa retorica europea che si è sviluppata attorno all’idea che il modello da seguire sul piano economico e finanziario, ma anche in senso più ampio, si trovava a nord, nella Mitteleuropa, concetto asburgico non mediterraneo. L’abusata antitesi tra i paesi frugali e le cosiddette cicale, ci dice che i «buoni» sono a Nord, non a Sud. Risultato, mediterraneo è una qualifica che preferiamo non usare, qualcosa che suona quasi come dequalificante.
Detto questo, va anche detto che questo nostro percorso di allontanamento dal Mediterraneo vi sono stati momenti della storia in cui abbiamo svolto un ruolo politico anche di rilievo in varie contingenze che hanno coinvolto il «nostro» mare. Cito due eventi che ci danno un po’ l’idea di questo.
Il primo è stato il nostro atteggiamento nei confronti della guerra di Algeria, un tragico conflitto chiusosi nel 1962. Era una guerra di decolonizzazione, ma i francesi la chiamarono una guerra civile, nella quale noi, a detta degli stessi algerini, avemmo una postura politica corretta, anche grazie alle politiche di Mattei e dell’Eni. Il noto film «La battaglia di Algeri», premiato dal Festival di Venezia, venne girato interamente nella kasbah di Algeri con l’aiuto e il sostegno delle autorità algerine, che riconoscevano all’Italia un atteggiamento corretto nel corso della guerra d’indipendenza.
E inoltre abbiamo svolto un ruolo politico, di grande rilevanza, in Tunisia nel 1987 quando il Presidente tunisino Bourghiba venne destituito dal capo dei servizi ben Alì, presentatosi al Palazzo di Cartagine con ben sette certificati medici che ne attestavano l’incapacità a governare. Ben Alì si impose grazie al sostegno determinante dell’Italia e dei nostri servizi. Tutto questo viene raccontato nelle memorie dell’ammiraglio Fulvio Martini in un interessante volume dal titolo “Nome in codice Ulisse”.
Anche nella più grande crisi di politica internazionale, quella del conflitto arabo-israeliano, riuscivamo in qualche modo a ritagliarci un ruolo non secondario, parlando con tutti, con gli israeliani ma anche con i palestinesi dell’OLP, considerata allora un’associazione terroristica. Il leader dell’OLP Arafat, quando veniva in Italia, veniva ricevuto dal presidente della Repubblica che allora era Pertini e incontrava i nostri leader politici più importanti, Andreotti, Craxi e Berlinguer. Lo stesso Andreotti nell’Aula di Palazzo Madama disse la famosa frase «Ognuno di noi se fosse nato in un campo profughi sarebbe un terrorista».
Di tutto questo nella nostra politica mediorientale e mediterranea di oggi non vi è traccia. E quando facevamo tutte queste cose noi non attentavamo alla nostra sicurezza, non mettevamo il pericolo il nostro paese, ma anzi ne garantivamo la sicurezza che – in anni molto difficili quali furono gli anni ’70 e ’80 – fu superiore a quella di quasi tutti i paesi europei.
Dovremmo ritornare almeno un po’ a questo. Tornare a dialogare con tutti, che è la cosa che ci viene meglio, che sappiamo fare bene, inserendoci così nel grande contesto internazionale delle problematiche mediterranee e mettendoci nella condizione di affrontare sfide e pericoli che proverranno sempre da un’area così complessa e tormentata.
La dimensione mediterranea è quella più congeniale al nostro paese. Aggiungerei un po’ provocatoriamente, l’unica che possiamo concretamente svolgere e che dobbiamo perseguire con maggiore convinzione anche e soprattutto in ambito europeo.
In tempi che oggi ci appaiono lontanissimi, parlo del 1991, un ministro degli Esteri italiano, più che italiano veneziano, di cui nessuno credo metta in discussione la capacità di visione, Gianni De Michelis, lanciò in una conferenza a Palma di Maiorca una proposta di cooperazione multilaterale mediterranea denominata CSCM, cioè una conferenza per la sicurezza e la cooperazione nel Mediterraneo.
Il concetto di base, derivato dalla CSCE del 1973, la Conferenza sulla sicurezza e cooperazione in Europa, era che ogni paese in ambito Mediterraneo doveva ricercare la propria sicurezza non contro i paesi vicini, ma attraverso la sicurezza degli altri: questo processo avrebbe realizzato la base necessaria per avviare una cooperazione e integrazione mediterranea da realizzarsi nel corso degli anni. Allora questa prospettiva parve molto difficile, pensate solo alla complessità del confronto israeliano palestinese. Oggi, nella drammatica situazione internazionale con cui ci confrontiamo, ci appare quasi impossibile.
Ma anche se questa prospettiva oggi può sembrare lontana e impensabile, credo che in futuro dovremo necessariamente passare attraverso questa idea, o qualcosa di simile, se vorremo costruire un’area mediterranea stabile, prospera e integrata, che grazie alle sue opportunità ci rassicuri e non ci incuta spavento come fa oggi.