6 marzo 2019. Le elezioni europee del prossimo maggio saranno un momento decisivo per le sorti dell’Unione. Alcuni sono pronti a decretarne la morte qualora si affermassero partiti sovranisti. Ovviamente sono esagerazioni da campagna elettorale. Certamente, le elezioni europee saranno uno spartiacque.
Per quanto l’UE si trovi oggi in una situazione molto complessa e i partiti “mainstream” siano in difficoltà, che un buon risultato delle forze euroscettiche possa arrestare il processo di integrazione è alquanto difficile. In primo luogo, perché queste forze politiche faticheranno a restare unite nel Parlamento Europeo. In secondo luogo, perché il peso dei governi nazionali nella designazione del presidente della Commissione non è indifferente. Infine, se la storia della costruzione europea ci ha insegnato qualcosa è che quasi una costante del processo di integrazione è il passare da una crisi all’altra. Come se fosse parte della sua natura.
È vero che l’insieme delle crisi che l’Europa ha affrontato e sta affrontando in questi anni rischia progressivamente di renderla invisa agli occhi dei cittadini europei. L’economia stagnante, l’immigrazione, le disuguaglianze stanno creando in molti paesi europei frustrazione politica. I partiti populisti, vecchi e nuovi, hanno saputo cogliere l’opportunità e sono stati abili nel definire un racconto che ha profondamente convinto molti elettori a votare per loro. Secondo la narrazione diffusa, il processo di integrazione europea non è altro che una faccia della globalizzazione. Una minaccia che mette in crisi l’omogeneità economica e sociale (“gli stranieri ci rubano il lavoro”), culturale (“gli stranieri hanno valori diversi dai nostri”) e quindi politica (“lo stato nazionale deve recuperare i suoi poteri”).
In un contesto simile l’insoddisfazione genera apatia e voto di protesta contro la classe politica, ritenuta, a torto o a ragione, responsabile delle difficoltà.
Ma l’insoddisfazione in politica non genera solo rigetto delle istituzioni e protesta. Può generare anche un nuovo impegno civico e democratico. Guardiamo agli stessi partiti sovranisti ed euroscettici. Le elezioni del prossimo anno saranno comunque le prime, a nostra memoria, dove il tema “Europa” sarà al centro dei dibattiti nazionali. In alcuni paesi già lo è. E, per quanto in tale dibattito si avanzino proposte pericolose per chi ha a cuore il processo di integrazione, per la prima volta si discute in maniera diffusa del futuro dell’Europa. Magari non nei termini che vorremmo – la Brexit insegna che la manipolazione c’è e ci sarà – ma se ne parla. C’è quindi attenzione e ricettività da parte dei cittadini europei.
Guardiamo allora con un moderato ottimismo al futuro. Soprattutto la (buona) politica dovrebbe farlo.
Per i partiti esistono sfide che vanno colte e sono proprio quelle che i cittadini ci segnalano con il loro voto. Non si tratta di abbracciare le soluzioni di formazioni eurofobe ma di comprendere disagi e preoccupazioni delle persone. Si tratta di pensare soluzioni nuove, magari che nascono al di fuori dei partiti tradizionali e dei partiti stessi. Non necessariamente nella società civile: pensiamo soltanto allo sviluppo del Civtech, le tecnologie digitali al servizio dei cittadini e della democrazia. È nostra convinzione che dare una soluzione ad un problema non significhi capitolare ai propri valori e alle proprie idee, così come riteniamo che adottare una politica che rassicuri la purezza ideologica dei militanti di partito non sia una soluzione salutare (oltre che inutile).
Anche sul tema dell’Europa, riteniamo quindi che un approccio di questo tipo sia applicabile. Come ripensare l’Unione Europea e le sue politiche per riconnettersi con i principi base della democrazia liberale? Pensiamo che da un punto di vista delle riforme, la priorità debba essere la costruzione di un reale spazio politico europeo. Non possiamo chiedere ai cittadini di votare alle elezioni europee se poi queste non producono un risultato immediatamente riconoscibile e in grado di realizzare un programma politico.
Quale, dunque, il percorso delle riforme?
In primis, una revisione dell’iter dell’iniziativa legislativa, troppo complessa, scarsamente rispondente a logiche di accountability e decisamente pachidermica nel rispondere a un mondo sempre più veloce.
E ancora, un ripensamento delle modalità elettorali, che necessitano di elementi di riconoscibilità della valenza sovranazionale del voto, quali la presenza di liste transnazionali o l’affiliazione sulla scheda elettorale delle liste nazionali alle loro famiglie europee. Appare ancor più privo di qualsiasi lungimiranza il “no” del Parlamento Europeo per la creazione di liste transnazionali da una parte dei seggi britannici.
Ancor meglio, l’elezione diretta del Presidente della Commissione. I timidi percorsi avviati in tal senso, quali la scelta dei candidati alla Presidenza sono troppo chiusi e totalmente assenti dalla discussione nell’opinione pubblica. Chi oggi tra i cittadini europei conosce i cosiddetti “Spizenkandidaten”? Davvero i “partiti” politici europei pensano di risolvere il problema della rappresentanza scegliendo un candidato presidente, con tutti i limiti della procedura, in “congressi” a porte chiuse?
Oltre alla riforma della governance, urge cambiare passo per quanto concerne le politiche fiscali, sociali e dell’immigrazione. Sulle politiche sociali si gioca la sfida più delicata: in un mercato unico, è stato un clamoroso errore non avanzare forme di protezione dei più deboli sempre più uniformi. Una mancanza anche delle forze sociali e sindacali, che non hanno saputo riformarsi per affrontare loro stessi, in ottica europea, queste nuove (ma vecchie) sfide. Non è troppo tardi.
A fondamento delle riforme deve esservi un sogno. Il Novecento è stato il secolo dei nazionalismi e delle guerre, ma anche del grande sogno europeo e della pace. Il Duemila può essere il secolo degli Stati Uniti d’Europa. Senza un sogno, spiegato con chiarezza agli elettori, non si realizzerà alcun cambiamento.
Marco Caberlotto
Imprenditore
Marco Michieli
PhD Scienze Politiche, Università di Pavia