Ucraina. Dalla crisi alimentare all’apertura di un negoziato. Intervento di Gianpaolo Scarante

Gli antichi greci dicevano che le guerre iniziano in un modo e poi, oltre le volontà dei loro stessi protagonisti, prendono direzioni inaspettate.

Credo che il conflitto in Ucraina abbia proprio queste caratteristiche: cominciato come una guerra di difesa, si è trasformato in una guerra volta a indebolire la Russia per diventare oggi sostanzialmente una guerra di logoramento, in cui presumibilmente vincerà chi potrà mettere in campo più uomini e più mezzi.

Di questi tre scenari, proprio l’ultimo è quello meno adatto alla negoziazione: perché chi punta al logoramento, finché non ne appaiono con evidenza gli effetti è assai poco disponibile ad avviare un negoziato. Ed è per questo che oggi si parla molto di guerra e poco di pace.

Ciò nonostante, il Presidente Draghi ha fatto bene a chiamare Putin e a porre il problema della crisi alimentare, così come ha fatto bene l’Italia a presentare, anche se in maniera un po’ maldestra, il suo piano di pace in quattro punti.

Il tema della crisi alimentare ha guadagnato – improvvisamente e solo da poco – il centro dell’attenzione. Ma già tre mesi fa era chiaro che minando i porti, danneggiando le comunicazioni, impedendo le attività agricole tale crisi sarebbe sicuramente arrivata.

Non so quanto Draghi sia stato ascoltato da Putin: una prima, cauta, apertura è stata subito smentita da una nota del Cremlino, che ha subordinato la riapertura dei porti a una revoca delle sanzioni assai difficilmente praticabile. Però, ripeto, bene ha fatto Draghi ad allargare lo scenario oltre l’instabilità creata in territorio ucraino, verso altre – importantissime – aree del mondo: verso il Mediterraneo, verso il Pakistan… perché affrontare la crisi alimentare si può fare solo guardando a un contesto più ampio.

La migliore soluzione anche alla crisi alimentare sarebbe decidere subito una tregua e possibilmente avviare dei negoziati di pace. Il governo italiano – nella fase iniziale della guerra – non si era mosso per nulla, rimanendo in una cauta posizione di attesa, dagli esiti non prevedibili e anche difficile da interpretare.

Oggi il nostro Paese è più attivo, ha elaborato una sua proposta di piano di pace, che però purtroppo ha esposto in modo maldestro: dal 18 marzo, dopo la presentazione al Segretario generale delle Nazioni Unite Guterres, nessuna missione è stata attivata per preparare e coinvolgere gli interlocutori e le parti in gioco. Che facilmente hanno quindi potuto obiettare di non conoscere, di non aver visto, di non aver ricevuto le proposte italiane.

L’ha fatto subito Zelensky: «non l’abbiamo ancora ricevuto, lo valuteremo» (… e forse lo sta ancora facendo, dato che da allora il presidente ucraino non si è più espresso). Il ministro degli Esteri russo Lavrov ha avuto una reazione molto secca, davvero inusuale sul piano delle relazioni internazionali, non solo stroncando il piano come frutto di politologi locali e fonti fake, ma addirittura attaccando personalmente il ministro degli Esteri italiano e un suo presunto desiderio di autopromozione. Un attacco durissimo.

Ma più sorprendente ancora è stata la reazione – estremamente negativa – dei vertici dell’Unione Europea: l’Alto rappresentante per la politica estera Borrell, dopo aver dichiarato di non conoscere il piano, ha aggiunto che in ogni caso «tutte le truppe russe devono ritirarsi dai territori ucraini», tagliando quindi ogni praticabilità al piano italiano. Von der Leyen ha rincarato la dose, commentando sostanzialmente allo stesso modo e aggiungendo a sua volta che «l’Ucraina deve vincere la guerra».

Insomma, il piano italiano è stato presentato e accolto molto male. Ciò nonostante, per quanto gli esiti non siano stati incoraggianti, il nostro Paese ha fatto bene a presentarlo, perché la parola pace, negli ultimi tempi praticamente scomparsa dall’orizzonte, è tornata al centro dell’attenzione internazionale.

Il piano è stato accolto così male in sede europea per una ragione tecnica e per una sostanziale.

Sul piano tecnico, come ho già detto, la sua presentazione è stata effettivamente non impeccabile. Un piano di questo genere, che va proposto innanzi tutto ai principali contendenti, ma anche a un’altra serie di attori importanti, europei e atlantici, va preparato con molta attenzione e va presentato con missioni specifiche in cui lo si spiega, se ne espongono i dettagli… Tutto questo non è per nulla avvenuto e quindi tutti gli interlocutori hanno potuto dire di non conoscerlo, di non saperne niente, di aspettare che venisse loro presentato.

La seconda è che oggi le condizioni per avviare i negoziati non sono particolarmente favorevoli. Finora non lo sono mai state, in realtà, ma questa fase specifica, in cui assistiamo sul terreno a una vera e propria lotta di logoramento, in cui vincerà chi riesce a mettere massicciamente sul campo più risorse militari e umane, è difficilissima da interpretare finché non comincia a delinearsi un risultato.

Il piano italiano è stato accolto con freddezza o con ostilità soprattutto perché all’interno dell’Europa e del campo occidentale cominciano a delinearsi delle differenze di visione che sono estremamente significative, la prima delle quali – detta seccamente ­­– è: «facciamo la guerra contro Putin o contro la Russia?».

Sembra un esercizio retorico, in realtà è veramente una questione di sostanza. Perché fare la guerra contro Putin significa che, rimosso quest’ultimo, diventa nuovamente possibile dialogare con la Russia per riportarla nell’alveo del continente europeo, come elemento di sicurezza e di stabilizzazione. Se invece si fa la guerra contro la Russia, abbiamo davanti alcune decine di anni in cui il paese è destinato a restare completamente isolato, non coinvolto nella comunità internazionale, con tutto ciò che ne consegue.

Non è un caso che per la prima ipotesi («siamo contro Putin e non contro la Russia») si siano schierati Draghi e Macron, mentre per la seconda («siamo contro la Russia e dobbiamo isolarla per i prossimi decenni») siano Biden, l’Unione Europea, Johnson.

La spiegazione più ampia e generale di quel che sta accadendo si trova crollo di un ordine internazionale, quello definito dalle due superpotenze nel corso della guerra fredda. Un ordine venuto meno perché una delle parti – l’Unione sovietica – ha lasciato il terreno (vincendo o perdendo, secondo le diverse interpretazioni).

Oggi siamo alla ricerca di un nuovo ordine mondiale, che le Nazioni Unite non possono produrre, perché esse stesse sono la fotografia dei rapporti di potere all’uscita dalla Seconda guerra mondiale. I cinque membri permanenti sono sostanzialmente i vincitori di quella guerra. E poiché hanno potere di veto, sul piano della composizione politica dei conflitti le Nazioni Unite sono praticamente bloccate, nel caso ucraino come in decine di altri.

Stiamo attraversando un momento di caos, alla ricerca di un ordine regolatore internazionale che non c’è e che neppure riusciamo a vedere all’orizzonte. Ecco perché siamo così perplessi, perché ognuno va per conto suo. Ecco perché addirittura all’interno dell’Unione Europea, e naturalmente delle Nazioni Unite, si sono formate visioni così diverse e così contrastanti, e azioni conseguenti così apparentemente frammentarie e divise.

L’evoluzione della guerra sul campo e le prospettive che ho indicato – «contro Putin o contro la Russia?» – hanno implicazioni di politica estera importantissime.

È evidente che gli Stati Uniti vogliono veramente indebolire la Russia, per togliersi nei prossimi tempi un interlocutore scomodo e ostile, e magari potersi dedicare con maggiore attenzione e più liberamente alla Cina. Mentre al momento l’Europa è divisa tra chi ritiene che la Russia sia un attore indispensabile per garantire la sicurezza e la prosperità del continente e chi ritiene che sia un nemico da tenere lontano, ben separato da un forte cordone sanitario.

Questa fase prolungata di conflitto favorirà l’emergere di queste differenze, di due visioni per il momento ancora difficili da leggere con chiarezza, ma destinate a diventare sempre più visibili, con conseguenze credo al momento imprevedibili.

Nessuna pace si è mai fatta restando su posizioni radicali. Ogni pace è sempre frutto di un compromesso. La stessa parola – pace, dal latino pactum – presuppone due attori che negozino qualcosa. Le radicalizzazioni attuali, non solo dell’Ucraina e degli Stati Uniti, ma anche dentro l’Europa (penso per esempio alla Polonia), non potranno essere mantenute integre, intatte quando comincia il negoziato. Perché il negoziato per definizione è compromesso: qualcuno dovrà cedere qualcosa in cambio di qualcos’altro.

Oggi le radicalità possono esprimersi proprio perché il negoziato manca. Il giorno in cui si avvierà, mi auguro al più presto, anche queste posizioni cambieranno.

 

 

 

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